La fiducia della Camera a Gentiloni è il simbolo della fine della politica

di Gennaro Malgieri
14 Dicembre 2016

Non s’era mai visto, in settant’anni di storia repubblicana, un governo presentarsi in un’aula semivuota, distratta, ciarliera per chiedere la fiducia. I ministri, dal canto loro, erano intenti a tutt’altre attività: chattare, esercitarsi nell’arte dell’origami, leggere mail, scarabocchiare qualcosa, confabulare con le mani davanti alla bocca (come i calciatori in campo). L’abbiamo visto, nell’anno di disgrazia 2016, mentre il neo-presidente del Consiglio Paolo Gentiloni esponeva il suo programma (diciamo così, tanto per dire) alla Camera dei deputati. La scena, quantomeno surreale, di sicuro atipica ed originale, fotografa lo stato di decozione istituzionale nel quale siamo immersi e l’inabissamento della politica nella palude da essa stessa creata.

Questa immagine resterà nel tempo e racconterà ai posteri la decadenza di una classe politica scombinata, inconcludente, frastornata al punto che una parte di essa ha perfino, nell’occasione, riscoperto il fascino sinistro dell’Aventino quando avrebbe dovuto esercitare, con sobrietà ed eleganza semmai ne fosse capace, l’opposizione all’esecutivo in ossequio al mandato ricevuto dagli elettori. L’abbandono dei luoghi rappresentativi non è mai segno di forza, semmai di debolezza. Non basta non condividere e farlo sapere attraverso i social network, bisogna pure elevarsi al di sopra dell’istintività dettata dal disgusto per far valere ragioni che sperabilmente tutti possano comprendere.

Da una parte ci siamo, dunque, trovati un governo malmesso, fotocopia del precedente, incomprensibile nella struttura, nelle finalità e nel programma minimo che dovrebbe attuare, privo di forza politica; dall’altra un’opposizione raccogliticcia, demagogica, logora nonostante la vittoria referendaria, incapace di articolare una sola idea per superare l’impasse ed attorno ad essa richiamare coloro che vorrebbero esprimere un consenso alternativo ad una classe politica credibile. Un quadro orribile, insomma.

La Prima e la Seconda Repubblica, tra rimpianti e recriminazioni varie, sono finite come sappiamo. Ma questa che stiamo vivendo in che modo qualificarla? Basterebbe dire che non assomiglia neppure ad una Repubblica. È un gran casino ben organizzato da chi ormai non ha più niente da dire se non avanzare propositi di vendetta e, di contro, trovarsi davanti mediatici personaggetti di null’altro preoccupati se non di apparire ogni santo giorno sugli schermi televisivi ed invadere costantemente il web per non dire assolutamente nulla.

C’è poco da almanaccare su legge elettorale e possibili altri referendum (anche questa diventerà una mania, potete scommetterci), quando la politica si eclissa. E con rammarico constatiamo una sì grave sventura che nulla di buono porterà alla comunità nazionale sia che si voti tra sei mesi o un anno e mezzo. È fin troppo evidente che concentrare tutto sull’attesa delle elezioni non potrà che esasperare ancor più i toni nel confronto tra gli schieramenti. E, di conseguenza, paralizzare l’Italia come è accaduto per sette mesi aspettando l’esito referendario. È da irresponsabili, ne convengono tutti, ma il sistema bloccato (e non certo per le riforme respinte) e l’economia stagnante e la diffidenza degli investitori e la paura delle famiglie e delle imprese non aiuteranno né Gentiloni, né i suoi oppositori a costruire quel necessario clima per varare una buona (o semplicemente decente) legge elettorale e tornare a votare a prescindere dalle paturnie di Renzi, delle ordalie in atto nel Pd, dall’insostenibile leggerezza del Movimento Cinque Stelle, dalle velleità salviniane e dal monarchismo anarchico (scusate l’ossimoro) di Forza Italia.

Se prevalesse un minimo di buon senso, deputati e senatori prenderebbero atto che da questo Parlamento non potrà venir fuori una legge elettorale minimamente condivisa e si acconcerebbero a ripristinare il Mattarellum che almeno garantisce un rapporto diretto tra elettore ed eletto e rappresenta tanto le istanze territoriali quanto quelle partitiche. Ma se la discussione è su come creare i presupposti per nuovi inciuci, riesumando il sistema proporzionale, vuol dire che questa classe politica non cerca il consenso, ma soltanto il dileggio.

Oltretutto è pure istituzionalmente analfabeta. Che senso ha continuare a dire che ben quattro governi non sono stati eletti dal popolo? In una Repubblica presidenziale il popolo elegge direttamente i governi attraverso il leader che rappresenta il partito o la coalizione vincente. In una Repubblica parlamentare l’incarico lo dà il capo dello Stato e non è obbligato a conferirlo a chi guida la compagine che ha preso più voti, ma a colui che dimostra di poter avere la maggioranza nei due rami del Parlamento. Ricordate il “caso Bersani”? Era il candidato premier, ma non riuscì a formare il governo, tanto che la mano passò a Letta.

Quando la polemica diventa strumentale e la confusione annebbia le menti c’è ben poco da sperare. Volevate, signori dell’opposizione (ma anche della maggioranza) un “governo del popolo”? Avete avuto vent’anni per riformare la Costituzione in tal senso e non l’avete fatto. Incanaglirsi adesso sul punto è grottesco.

Abbiate il coraggio di sostenere che soltanto (forse) da una vera Assemblea costituente possono venir fuori riforme accettabili e lasciate stare tutto il resto. Gentiloni arriverà probabilmente alla fine della legislatura, non perché assetato di potere, ma perché nessuno realmente vuole le elezioni anticipate. Dopo, si starebbe anche peggio.