Ripensare l’interesse nazionale

di Redazione
4 Maggio 2018

C’è chi dice che la politica estera sia uno specchio in cui si riflette l’immagine che un paese ha di se stesso. Se così fosse, non potremmo che constatare come l’Italia si senta veramente “piccola e brutta”, non riuscendo a comprendere il suo valore, le sue potenzialità, quindi il suo posto nel nuovo mondo. Una sana dose di realismo. Questa la cura di cui ha bisogno l’Italia. Capire concretamente quale sia il posto che vuole ritagliarsi, tenendo bene a mente i propri limiti, le mire degli alleati e dei presunti tali, le ambizioni e le attitudini degli altri attori di maggior peso in ambito internazionale. Cercare di comprendere come poter giocare al meglio le proprie carte nel contesto europeo, far capire agli alleati storici che l’Italia è pronta ad adempiere ai suoi obblighi laddove, però, l’interesse nazionale coincida con quello dell’Alleanza Atlantica, o quantomeno riuscire ad assicurare benefici concreti per un eventuale supporto italiano alle azioni di quest’ultima. Essere a valore d’uso significa possedere potere negativo, dunque un potenziale valore di scambio. Questa la mentalità, andata poi perduta, di chi come De Gasperi si è dovuto confrontare con il compito di rimettere in piedi un paese uscito devastato dalla guerra. Per questo il suo intervento alla Conferenza di Pace di Parigi, il 10 agosto del ’46, è rimasto nella storia: “Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione. Non corro io il rischio di apparire come uno spirito angusto e perturbatore, che si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi unilaterali? Signori, è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo, di parlare come italiano (…).”

L’Italia ancora soffre la pesante eredità di paese uscito sconfitto dalla Seconda Guerra Mondiale. La differenza col passato è che oggi non si comprende come ci sia la necessità di accettare l’europeismo sì, ma un europeismo degasperiano, ovvero “convertirsi” al progetto della comunità europea per salvaguardare l’interesse nazionale, non per seguire aprioristicamente vaghe ideologie considerate, a torto o ragione, “comuni”. Soprattutto fino a che il progetto di una Difesa comune non verrà portato a termine (sempre che accada). La fine della Guerra Fredda, cioè di un ordine internazionale più o meno rigido entro il quale Roma poteva ricavarsi marginali spazi di manovra, ha sollevato di nuovo l’ambiguità della natura duale della geopolitica italiana: continentale e mediterranea. Le scelte sulla prima sono state delegate a realtà extra-nazionali mentre quelle sulla seconda sono state quasi completamente depositate nel dimenticatoio della politica. Condizione lontanamente accettabile se il Mediterraneo non fosse nuovamente al centro di una cornice di instabilità e turbolenza, potenzialmente molto dannosa per il Paese.

Un nuovo mondo che richiede grandi leader alla guida di ciascun paese per affrontare al meglio le sfide epocali che si prospettano cercando contemporaneamente di tutelare l’interesse, la storia, la cultura del proprio popolo e della propria nazione. Rimane nella storia la definizione che il generale De Gaulle diede del patriottismo, che non è nazionalismo, perché “patriottismo significa che l’amore per la tua patria viene per primo, nazionalismo che l’odio per quelli che non appartengono alla tua patria viene per primo.” E c’è una bella differenza. I francesi se lo ricordano e lo sanno bene; gli italiani no. Nel 1962 sempre De Gaulle disse che l’unica Europa possibile era un’Europa delle Nazioni, perché “Dante, Goethe o Chateaubriand non sarebbero riusciti a partorire le loro opere” in una realtà politica senz’anima come quella di una Unione Europea che non guarda singolarmente a tutte le sue realtà, esaltandole e valorizzandole, ma che vorrebbe invece uniformarle in un unico blocco indistinguibile, amorfo, sterile.
Abbandonare il progetto europeo sarebbe ingenuo. Pensare che non servano leader alla testa di ciascun paese per salvaguardare gli interessi della propria nazione, però, è una follia. Il coraggio o l’amor patrio c’entrano poco. Qui si parla di mancanza di visione. Nessun politico italiano sa che tipo di Italia desidera nel concreto. L’Italia non è più in grado di formare classe dirigente; ha smesso di produrre statisti. E di questi c’è bisogno per capire che ruolo poter ritagliare per l’Italia in un mondo che vede sfide e opportunità enormi.

La classe politica non è attrezzata culturalmente, politicamente e moralmente per elaborare una politica estera coerente e di ampio respiro. Questa preferisce abdicare alla propria funzione e lasciare che la burocrazia tecnico-amministrativa e diplomatica agisca per inerzia; ma la burocrazia, per definizione, ostacola il processo decisionale. La politica, però, è decisione e, in assenza di questa, non c’è politica. In Italia c’è la Patria ma non c’è lo Stato. Tuttavia, senza lo Stato non è pensabile una politica estera. Lo Stato trae la sua forza dalla legittimità delle sue istituzioni e affinché si possa ritessere la trama di una politica estera è necessario connettere il potere ai principi, allargando la piattaforma di partecipazione democratica a fasce sociali sempre più ampie.
La sovranità non si definisce infatti dalle sue manifestazioni (monetaria, militare, ecc.) ma dal suo contenuto. E qual è il contenuto della sovranità se non la difesa della discrezionalità, dunque della ragione di Stato?  Crediamo allora che l’interesse nazionale – e non il generico insieme di interessi che da esso derivano – sia l’Unità politica conquistata nel 1861. L’Unità è sempre stata messa in discussione, sia all’interno sia all’esterno. Spesso si è agito dall’esterno affinché le spinte interne fossero centrifughe e non centripete, in modo tale da minare la coesione interna e mantenere l’Italia in una condizione di oggetto politico, incapace di acquisire soggettività. Ad oggi l’Italia è sottoposta a pressioni disgregative di vario tipo, dall’attrazione della manifattura del Nord nella catena industriale tedesca, all’acquisizione francese di asset strategici, dalle spinte migratorie che stanno lentamente alzando la faglia di crisi verso i confini italiani, alla stagnazione del processo di integrazione europea, fino alla crisi tra Alleanza Atlantica e Federazione Russa. Disintegrazione può non significare caos ma anche formazione di un ordine internazionale e regionale diverso. In entrambi i casi è necessario proteggere l’Unità dello Stato dalle forze che ne mettono in tensione la tenuta, in modo tale da poter acquisire soggettività politica.

Se l’Unità è l’interesse nazionale allora l’attuale modello di Unione Europea è potenzialmente lesivo. L’attrazione gravitazionale dell’economia del Nord Italia nella Kerneurope teorizzata dal ministro Schauble finirebbe per aprire una frattura insanabile, ed è un prezzo che non possiamo pagare.  Se quel settore economico fosse incorporato in una Mitteleuropa germanica assorbirebbe un modello produttivo “export-oriented”, ideato per compensare il calo della domanda interna dovuta alle politiche del rigore. Ma questo finirebbe per uccidere il tessuto produttivo e sociale del resto della penisola. L’Europa diventerà la soluzione nel momento in cui non metterà in pericolo l’Unità, cioè dal momento in cui il tessuto produttivo del Nord Italia avrà trovato sfogo anche nella domanda interna ricalibrando lo iato con la domanda estera e le esportazioni. Solo così si potrà salvare il Sud dalla dipartita del Nord e il Nord dall’orbita della catena del valore tedesca.

L’Unità deve essere difesa in Europa seguendo due linee di azione: rafforzare la Dimensione Sud e riformulare i paradigmi del processo di integrazione. La prima è un antidoto alle deviazioni della seconda. Senza un fianco mediterraneo forte e stabile, l’Italia perderebbe valore aggiunto e rimarrebbe esposta da sola alle pressioni che salgono dall’Africa. Tuttavia, senza i meccanismi dell’integrazione sarebbe comunque esposta alle frustrazioni dovute al suo stato incerto di potenza. Da un lato essa deve allora sostenere la serrata competizione con la Francia, dall’altro evitare che la Germania – storico alleato sul Continente – eriga una Fortezza Europa che escluda l’Italia dai mercati balcanici e russi, dividendola internamente.

L’Italia ha bisogno di acquisire soggettività ma ciò può avvenire soltanto rinunciando all’ansia del riconoscimento del proprio stato di potenza. Riconoscimento che, per ragioni di opportunità politica, le altre potenze europee ed occidentali non ci concederanno mai. È giunto il momento di accettare i propri limiti, abbassare l’asticella delle pretese e all’interno di questa cornice perseguire compiutamente l’interesse nazionale dello Stato. La dottrina del “peso determinante” del Ministro degli Esteri Dino Grandi non fu sbagliata in quanto tale, si rese inutile nel momento in cui la bilancia che ne determinava l’orientamento di azione venne alterata dalla bulimia di prestigio e dall’ansia del riconoscimento. Accettare i propri limiti e abbassare l’asticella significa demolire la “politica della sedia”, anestetizzare la querulomania del “presenzialismo”, emanciparsi dall’assegnazione dei posti per rendite di casta e sedersi al tavolo internazionale solo nel momento in cui la protezione o la promozione della ragione di Stato sia oggettivamente rilevabile e l’assunzione delle conseguenti responsabilità volontaria e totale. I limiti, umani e materiali, non sono il giogo che si forza al collo di un animale, piuttosto la valorizzazione del proprio capitale in un appezzamento di terra che sia fruttifero e compensativo degli sforzi profusi nella semina. In altri termini, ciò che si vuole ottenere e la forza con cui lo si otterrà dovranno essere in proporzione geometrica.

Manifesto della Ragion di Stato

Principi

1. La politica estera è espressione del potere legittimo dello Stato. Se non c’è lo Stato, non c’è politica estera.
2. Quello che si vuole ottenere e la forza con cui lo si otterrà devono essere in proporzione geometrica.
3. Separare ideologia e rapporti di forza.
4. Trasformare il valore d’uso in valore di scambio.
5. La diplomazia è armata, altrimenti non è. L’esclusione della minaccia all’uso o l’uso della forza rendono la diplomazia velleitaria.
6. Il multilateralismo è un mezzo, non un fine in sé. L’internazionalismo una chimera.
7. Lealtà non significa abdicazione ai propri interessi.
8. Pretese da grandi potenza e metodi da piccola potenza dissipano risorse e prestigio.
9. L’Italia è il peso determinante fino a quando può mantenere libertà di scelta in una prospettiva dinamica dei rapporti di forza e di equilibrio in Europa. Deve cioè preservare il proprio potenziale di sbilanciamento. Il momento delle scelte, tuttavia, è inevitabile.
10. Affinché si possa parlare di parità di stato devono coincidere forma e sostanza.

Obiettivi

1. Trasformare il Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica in un organo permanente di direzione della politica estera e di sicurezza nazionale. Riformare l’apparato diplomatico.
2. Riformulare i paradigmi del processo di integrazione europea verso un Trattato di Maastricht II.
3. Impedire che il Nord venga assorbito nella catena del valore produttivo tedesco.
4. Agganciare la BRI cinese nell’Adriatico per tagliare le vie di Rotterdam e Amburgo.
5. Estendere la nostra presenza nei Balcani centro-orientali verso il Mar Nero.
6. Stabilizzare la Libia e il Corno d’Africa.
7. Ricalibrare gli sforzi diplomatico-militari e di cooperazione allo sviluppo verso l’Africa Orientale.
8. Partenariato Strategico Italia-Giappone per la prevenzione dei disastri naturali.
9. Sostegno all’Italofonia, alle comunità italiane e di discendenti italiani all’estero.
10. Costituzione di un Commonwealth italiano.

Guido Massimo Dell’Omo e Leonardo Palma