Come cambiano gli equilibri interni dei partiti tradizionali di tutta Europa

di Lorenzo Castellani
8 Marzo 2017

Il vertice a Versailles tra i quattro maggiori paesi europei costituisce un chiaro esempio di tutti i problemi che ha una incompiuta democrazia sovranazionale a prendere decisioni politiche. Se il vertice può essere letto come un sussulto di leadership da parte dei paesi più grandi dall’altro lato mostra tutte le difficoltà istituzionali dell’Unione a 28 Stati in cui quattro governi sono costretti a riunirsi prima e separatamente rispetto a tutti gli altri per poter concordare un indirizzo politico da contrattare, in seguito, con i restanti 24.

In questi giorni, inoltre, la Commissione Europea ha rilasciato un Libro Bianco sul futuro dell’Unione in cui si disegnano cinque possibili scenari sul futuro delle istituzioni europee che vanno dal più minimale (solo mercato comune) a quello più integrato (avanti insieme con più funzioni all’UE). Siamo di fronte a cinque gradazioni strategiche molto diverse che, però, non prevedono la riapertura dei trattati. Tra queste i quattro grandi sembrano preferire le opzioni centrali (vie di mezzo) e cioè “Chi vuole di più fa di più”, cioè integrazione su difesa, esteri e diritti sociali per i Paesi che lo desiderano, e “Fare di meno in modo più efficiente”, che significa ridisegnare alcune funzioni attuali dell’UE, ridurre le regole europee in alcuni settori, ma mantenendo lo stesso assetto di oggi dando più spazio alla cooperazione rispetto all’imposizione di politiche.

Nessun programma, dunque, di riforma più radicale né seguendo le proposte realiste, la cui versione italiana è quella di Giulio Tremonti (forma della Confederazione, poche e selettive funzioni in comune, mercato unico temperato, valorizzazione del principio di sussidiarietà, sovranità giuridica degli Stati membri rinforzata), né le impostazioni più idealiste, qui la proposta istituzionale la fornisce Sergio Fabbrini (Confederazione, netta separazione delle funzioni tra Stati e UE, ma tramite una democrazia multilivello e con un governo europeo superando Commissione e Consiglio). Entrambe queste opzioni, con più o meno varianti istituzionali, imporrebbero qualche forma di Costituente Europea su cui oggi sono sono tutti d’accordo: non esistono le condizioni politiche.

Non esistono perché si vota in tre Stati membri importanti nel 2017: Olanda, Francia e Germania. In tutti i casi i partiti euroscettici, per motivi e con proporzioni diverse, rischiano di andare forte. In Olanda Geert Wilders, che è per l’uscita dall’UE, con il suo PVV rischia di arrivare primo seppur si troverà a dover formare, almeno sondaggi alla mano, una coalizione con un centrodestra moderato ma non scevro da venature nazionaliste oppure, più probabilmente, ad essere il primo partito di opposizione alla coalizione tra centrodestra e centrosinistra. La pressione di Wilders e di una classe politica tutta spinta dall’elettorato verso l’euroscetticismo condizioneranno in ogni caso il rapporto del Paese con l’UE.
In Francia non è ancora esclusa la vittoria di Marine Le Pen (occhio a credere troppo ai sondaggi) e anche qualora la vittoria andasse a Fillon (che ha definitivamente guadagnato il sostegno dei Republicains) o a Macron ci sarà una situazione parlamentare affatto semplice, con una grande coalizione (da Fillon ad Hamon, che sposta i socialisti più a sinistra) che potrebbe minare la governabilità della Repubblica.
In Germania, il paese dove i sondaggi sembravano non sbagliare mai e dove la volatilità elettorale è rimasta molto bassa fino a oggi, la candidatura a Cancelliere dell’ex libraio (professione molto stimata in Germania) Martin Schulz ha fatto saltare tutti gli schemi. Schulz non solo scavalca la Merkel nei sondaggi sulla cancelleria (50 per cento lui, 34 lei) ma sembra possa fare della Spd il primo partito, dopo un decennio di sofferenze politiche del centrosinistra a causa o di personalità forti come la Merkel o identità forti come quelle della Linke, dei Verdi e sulla destra, di Alternative fur Deutschland. Un possibile sorpasso elettorale consentirebbe a Schulz di poter scegliere tra una rinnovata grande coalizione con Cdu-Csu o, addirittura, di una coalizione di sinistra con la Linke e con i Verdi. Avremmo, in questo secondo caso, l’adozione di politiche di spesa sociale non solo in Germania ma in tutta Europa. Inoltre, l’europeismo di Schulz spingerebbe probabilmente per lo scenario di una maggiore integrazione continentale e una chiusura più netta verso l’esterno (Trump, Brexit). In Europa, dunque, i mutamenti elettorali non vanno solo dall’establishment al populismo (molto diverso nelle varie latitudini europee: democrazia diretta e stato leggero nel Nord Europa, statalismo e nazionalismo in Francia, democrazia diretta e statalismo in Italia e Spagna), ma variano anche all’interno degli stessi partiti tradizionali (potrebbe accadere anche in Italia con un centrodestra normalizzato e meno ammiccante ai 5 Stelle).

Nel frattempo, come nelle proposte di riforma europea del Libro Bianco, i dati sembrano almeno indicare un caposaldo (ideologico ed empirico) nella governance dell’agitato continente: il mercato unico. Ne ho scritto per Linkiesta riportando i dati di un paper pubblicato da American Chamber of Commerce EU.