Gabriele D’Annunzio visto da un dandy moderno

di Fabio S. P. Iacono
2 Maggio 2018

Nell’anno del centenario della vittoria che permise all’Italia di completare la propria identità geopolitica nazionale con Trento, Bolzano e Trieste, l’Istria e la Dalmazia, dopo l’entusiasmante trionfo nella battaglia di Vittorio Veneto, che forse registrò la più clamorosa ritirata di un esercito europeo, quello austriaco, dal Piave sino a Vienna, inseguito ed incalzato dalle invicte regie Forze Armate con alla testa la cavalleria guidata da S.A.R. il Duca d’Aosta, come descritto nel tutt’altro che retorico bollettino finale emanato dal Generale Armando Diaz, non possiamo non riflettere intorno alla incarnazione della suddetta parabola politica e culturale italiana nella persona di Gabriele D’annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938). Compiuti gli studi liceali, tra il 1874 e il 1881, presso il Collegio Cicognini di Prato i genitori ne favorirono la vivacità esistenziale ed intellettuale.

Terzo di cinque figli, venne educato con equilibrato amore dal padre Francesco Paolo e dalla madre Luisa De Benedictis esponenti della piccola nobiltà urbana pescarese. Collegiale attirò l’attenzione di un intellettuale di formazione carducciana come Giuseppe Chiarini, stringendo amicizia con il musicista Paolo Tosti ed il pittore F. P. Michetti. La Facoltà di Lettere a Roma lo accolse ben volentieri nel 1881. Non si laureerà mai, all’accademismo D’Annunzio preferì naturalmente la geniale e brillante irregolarità del dandy, segnalandosi con due volumi di prose e di poesie del 1882 quali: “Terra vergine” e “Canto novo”. Il 1883 fu l’anno del matrimonio con la principessa Maria Hardouin di Gallese, dalla quale avrà tre figli. Sino al 1888, in qualità di giornalista, scrisse per “La Tribuna”. L’anno seguente apparve il suo capolavoro: “Il Piacere” che, con “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde e “A Rebours” di J. K. Huysmans, rappresentano manualisticamente il manifesto del dandismo europeo di fine Ottocento. Era il periodo di intense frequentazioni intellettuali con Angelo Conti, Adolfo De Bosis e sentimentali con Barbara Leoni.

Nel 1891 si trasferì a Napoli dove scrisse per “Il Mattino”, qui con Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio si leggevano gli scritti di Nietzsche e si ascoltavano le opere di Wagner. Il 1895 fu l’anno della suggestività classica per mezzo del viaggio in Grecia. Nel 1900 venne eletto deputato tra le fila della destra, per abbandonarla dopo la dura repressione dei fermenti popolari milanesi. Erano gli anni dell’amore erotico con la Duse nella eleganza di Villa Capponcina poco fuori Firenze. Nel 1910 in fuga dai creditori riparò a Parigi, non tutti mali vennero per nuocere, qui strinse nuove amicizie e frequentazioni con C. Debussy, A. France e M. Barrés. Ed un nuovo amore con la contessa russa Natalia de Goloubeff. L’Italia entrò in guerra nel 1915 contro gli imperi centrali, vide D’Annunzio tra i più ferventi interventisti. Perse un occhio in un incidente aereo con il suo biplano da caccia, la convalescenza veneziana sarà letterariamente gravida vide la luce l’opera “Il Notturno”.

Ripresosi si distinse sia in qualità di asso dell’aviazione, sia come ufficiale dell’esercito e della marina: incursione aerea su Pola nel 1917, il volo su Vienna nel 1918, la beffa nella baia di Buccari nel 1918 e l’occupazione di Fiume nel 1919, a guerra finita, con l’aiuto dei suoi arditi legionari. Nel 1924 Sua Maestà il Re, visti i meriti militari e culturali, gli assegnò il titolo nobiliare in qualità di Principe di Montenevoso. Da qualche anno si era trasferito infatti nella sua tenuta “principesca” sul lago di Garda a Gardone Riviera con la sua nuova amante la pianista Luisa Bàccara. Benito Mussolini borbottando e tra “amore e odio” saldò tutti i debiti residui mantenendo, assieme all’imperatore, l’alto tenore di vita del “Vate” italico sino alle soglie della primavera del 1938, quando si spense. Simbolicamente la morte di D’Annunzio segnò la fine dell’Italia imperiale, della linea fino ad allora vincente segnata da Dino Grandi, Italo Balbo, Galeazzo Ciano, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi. Il tribuno del popolo Benito Mussolini, a causa di una “malintesa” volontà di potenza, per mezzo del “Patto d’Acciaio” lanciando l’Italia nel rogo wagneriano della seconda guerra, amputò l’Italia non solo dell’impero e delle sue colonie, ma anche dell’Istria e della Dalmazia in Europa.

Per approfondire: Gabriele D’Annunzio – Italia o morte (Idrovolante Edizioni)

L’Italia è stata, è e sarà prima di tutto “un’Idea”. È necessario, per mezzo del prossimo quattro novembre, ridarLe la funzione di faro politico, economico e culturale europeo ed occidentale che Le compete.
[…] Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.

Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato
serba ancora qualche sentiero.
Ti dirò come sia dolce il mistero
Che vela certe cose del passato. […]

Tutto sarà come al tempo lontano.
L’anima sarà semplice com’era;
e a te verrà, quando vorrai, leggera
come vien l’acqua al cavo de la mano.

Consolazione. Da “Poema paradisiaco” (1891).