Sull’immigrazione e sui confini: quando la ragione non è progressista

di Redazione
6 Gennaio 2017

In quasi tutti i paesi Europei il dibattito sull’immigrazione è ormai divenuto un dialogo fra sordi, a rimetterci alla fine però sono sempre i cittadini abbandonati da una classe politica che preferisce vivere di slogan piuttosto che affrontare seriamente i problemi. È bene partire da una fondamentale distinzione: il rifugiato è una persona che scappa da guerre o da persecuzioni politiche e ha diritto di asilo in accordo con i trattati internazionali, l’immigrato invece ha uno status diverso e il paese di destinazione non ha quindi i medesimi obblighi che si presentano nel caso del rifugiato. Si conclude quindi che il rifugiato deve essere accolto, la scelta se accogliere il migrante spetta invece al paese di destinazione.

Quale criterio utilizzare per l’accoglienza degli immigrati? Il criterio economico si basa sul calcolo costi/benefici e seppur riduttivo (criteri etici e religiosi sono altrettanto importanti) è fondamentale per poter prendere decisioni in materia di ammissione. L’impatto dell’immigrazione sul bilancio dello stato, come ha affermato l’OCSE (International Migration Outlook 2013), si può considerare nullo. Gli immigrati contribuiscono meno alle tasse dello stato rispetto ai nativi e consumano più servizi tranne le pensioni. Considerate l’enormi somme da imputare al sistema pensionistico l’impatto dell’immigrazione sul bilancio dello stato è quasi nullo. Il documento dell’OCSE si conclude affermando qualcosa che farebbe sobbalzare sia Salvini che la Boldrini: “L’immigrazione non costituisce né un grande peso né un grande sollievo per il bilancio dello stato”. Così come è falsa l’idea che gli immigrati ci costano troppo così è senza senso affermare che “gli immigrati ci pagano le pensioni”, perché, alla fine, anche loro invecchiano.

Se l’impatto sul bilancio pubblico è in parte trascurabile non si può dire lo stesso dell’effetto sui salari dei lavoratori meno qualificati. Gli immigrati sono mediamente meno qualificati dei lavoratori italiani e anche gli immigrati più qualificati non trovano lavoro se non nei lavori che richiedono qualifiche inferiori. L’effetto di un aumento di lavoratori poco qualificati che concorrono per i medesimi posti di lavoro è, come dimostrato dall’economista di Harvard George Borjas, una sensibile riduzione dei salari degli occupati più svantaggiati. Almeno nel breve periodo si può affermare quindi che gli immigrati determinano una riduzione dei salari dei nativi meno qualificati e determinano un aumento delle diseguaglianze. Questi fenomeni non sono nuovi a chi ha studiato la storia dell’economia, si legga ad esempio il libro di O’Rourke e Williamson “Globalizzazione e Storia” dove si afferma che un effetto simile era già stato osservato durante il periodo della prima globalizzazione che coincise con un periodo di immigrazione di massa verso il nuovo mondo.

Un’obiezione che potrebbe essere mossa contro le precedenti argomentazione consiste nell’affermare che i risultati trovati non sempre confermano la tesi di Borjas e la magnitudo non è sempre così significativa. Come però ha affermato l’economista di Oxford Paul Collier nel libro “Exodus” oltre a preoccuparci dell’impatto attuale dell’immigrazione è molto importante preoccuparci dell’impatto che si avrebbe se non si utilizzassero le frontiere per limitare gli ingressi degli immigrati. Se si seguisse il buonismo di una certa sinistra e si lasciassero aperti i confini il numero di immigrati aumenterebbe a dismisura e gli effetti negativi sui salari aumenterebbero di conseguenza.

Purtroppo le élite progressiste non sono state in grado di comprendere quello che gli “sconfitti della globalizzazione” hanno compreso da tempo: senza delle frontiere e una gestione razionale dei flussi migratori l’impatto dell’immigrazione sarà insostenibile. Si spreca ormai la voce per parlare di post-verità quando in molti casi sarebbe meglio comprendere prima quale sia la verità e la verità, come ci ha ricordato Joseph Ratzinger, è sempre razionale.

La soluzione non è quella di impedire l’immigrazione, ciò sarebbe assolutamente inutile e soprattutto dannoso nel lungo periodo, ma è quella di sfruttare i confini per quello che sono: delle barriere che permettono di discriminare rispetto a chi può entrare e chi non può. Uno stato democratico è tale se prima pensa agli interessi del proprio demos e poi esercita il dovere di aiuto verso chi non è suo cittadino.

Rimane comunque il dovere di aiutare gli altri, i più svantaggiati del pianeta, tutto ciò può essere fatto aiutando i paesi di origine dell’immigrazione. “Aiutiamoli a casa loro!”, uno slogan corretto che meriterebbe però di essere seguito dai fatti: si deve cercare di aiutare i paesi più poveri a sfruttare al meglio le proprie risorse, tutto ciò è possibile attraverso la cooperazione fra stati e le associazioni umanitarie. Il dovere di aiutare gli altri non implica necessariamente il dovere di accoglierli tutti, questa decisione spetta alle singole nazioni che dovranno decidere in base all’interesse dei propri cittadini.

Edoardo Cefalà