Il rottamatore ha fallito: la scissione del Pd è la fine del renzismo
16 Febbraio 2017
Il giorno dopo il referendum tutti gli analisti consideravano plausibile lo scenario che oggi si sta materializzando. Il sistema politico italiano sta andando in pezzi. Il Partito Democratico, probabilmente, sta per fronteggiare la più grande scissione della propria storia nonostante il congresso nei prossimi mesi. Del centrodestra, e le sue divisioni, abbiamo già parlato. Anche qualora la legge elettorale uscita dalla Consulta subisse delle modifiche parlamentari questa resterà proporzionale e ciò significa che i deboli partiti italiani possono facilmente sgretolarsi in molti pezzi.
In questo scenario si riscontrano tutti i fallimenti del progetto renziano: rinnovo della classe dirigente, riformismo economico, riforma istituzionale. Andiamo con ordine. La rottamazione è sostanzialmente fallita poiché persino Walter Veltroni ha ritrovato una poltrona nelle scorse settimane. Gentiloni, parlamentare di lungo corso, è Presidente del Consiglio mentre Massimo D’Alema imperversa su giornali e televisioni. Lo stesso vale per Bersani e molto altri animatori della stagione ulivista. Certo è arrivata qualche faccia nuova in Parlamento dal 2013 e al Governo dal 2014, ma cosa se ne fanno gli italiani (e gli elettori del PD) di un Lotti e di una Boschi? Il peso politico dei renziani tra incapacità tecnica (di vari ministri) e figuracce social (ciaone e co) è del tutto sovrapponibile a quello del proprio capo. Anzi, i renziani al potere sottraggono, e non aggiungono in termini di idee e consenso, al proprio leader. Inoltre, hanno dimostrato di avere curricula a dir poco fiacchi per governare una potenza del G7, un certo provincialismo nella gestione dell’apparato pubblico e ancor meno idee con cui nutrire il proprio frontman. Così la rottamazione si è sfracellata sulle correnti e i signori del consenso locale (De Luca, Emiliano, Rossi) imperversano tra una corrente e l’altra del PD. Passiamo oltre.
Sull’economia c’è poco da dire perché i dati parlano da soli. Tolto l’effetto jobs-act, durato qualche tempo, non resta praticamente nulla. La riforma della scuola, nonostante le maggiori risorse, non ha funzionato per stessa ammissione dell’ex premier. Forse perché per riformare la scuola, così come per riformare la PA, non basta (o serve?) assumere precari ma riformare l’organizzazione e la valutazione dei servizi. Sui dati economico-finanziari puri hanno scritto The Economist e Commissione Europea. l governo italiano ha ottenuto flessibilità dall’Unione europea per 19 miliardi; Il rapporto debito/Pil è salito al 132 per cento, livello inferiore solo a quello della Grecia; La pressione fiscale nel 2016 è a quota 42,6 per cento, nel 2017 sarà 42,8 per cento, nel 2018 sarà pari a 42,7 per cento e così anche nel 2019 (nota di aggiornamento del Def); il prodotto interno lordo nel 2016 è stato pari a più 0,8 per cento, la media della crescita europea è stata di più 1,8 per cento, oltre il doppio. La crescita italiana nel 2017: 0,8 per cento (Germania più 1,5 per cento, Francia più 1,3 per cento).
Nell’ultima manovra del governo Renzi ci sono un totale di impegni di spesa da qui al 2019 pari a 44,3 miliardi di euro. Il tasso di disoccupazione in Italia è pari al 12 per cento, in Germania è pari al 5,9 per cento, in Francia il 9,6 per cento. A questi numeri si aggiunge una manovra correttiva da 3,4 miliardi.
Qualche giorno fa è stato pubblicato il report con le ultime previsioni della commissione europea. Crescita dell’area euro: 1,6 per cento nel 2017 e 1.8 per cento nel 2018. Italia: crescita 2017 a più 0,9 per cento, in lieve rialzo nel 2018: più 1,1 per cento. Abbondantemente al di sotto della media europea. La disoccupazione resta sopra l’11 per cento, deficit al 2,4 per cento del Pil, questa è la serie del rapporto tra debito pubblico e Pil tra il 2013 e il 2018: 129 per cento, 131,9 per cento, 132,3 per cento, 132,8 per cento, 133,3 per cento, 133,2 per cento. Altro da aggiungere?
Riforma costituzionale: dove inizia il capolinea. Sulle riforme istituzionali Renzi si è giocato la carriera ed il proprio progetto politico. Tutti nei commenti post-referendum si sono concentrati molto sui flussi elettorali, il contenuto della riforma, la comunicazione della campagna perdendo di vista il senso politico dell’accaduto. L’Italia democratica ha dimostrato, ancora una volta, di non volere padroni. Di fatto Renzi tra il 2014 e il 2016 aveva instaurato una sorta di premierato fortemente accentrato sulla propria personalità. Ha presidenzializzato l’esecutivo lasciando ai ministri e ai partiti un ruolo molto marginale. Tutto veniva deciso a Palazzo Chigi e, più precisamente, nella stanza del premier circondato dai fedelissimi di cui sopra. La traduzione di questo nuovo stile di governo era la riforma costituzionale (compromesso, ma che andava pur sempre in quella direzione). L’idea di fondo era l’istituzionalizzazione del premierato, l’instaurazione di governi più stabili, un sistema maggioritario. Il renzismo, che non è una dottrina politica ma una modalità di esercizio del potere politico, si fondava sul completamento di questa scommessa. La conclusione di quel percorso è fallita il 5 dicembre. Come De Gasperi, Craxi e Berlusconi prima di lui Renzi non è riuscito a centrare l’obiettivo e l’idea renziana dell’uomo forte capace di governare dentro e fuori il palazzo è sfumata. La mancanza di un disegno di governo per l’Italia, rimpiazzato da un politicismo pragmatico ma di corto respiro, e i risultati economici delle riforme hanno fatto il resto.
Ciò significa la fine politica di Renzi? Certamente no, perché resta pur sempre il segretario del Pd, ma segna un forte indebolimento del personaggio. L’asse fondamentale del renzismo quello per cui si mandano a casa i politici che non hanno vinto, si sostituiscono con una classe politica giovane e comunicativa, si portano a casa riforme economiche attese da anni e si instaura una leadership capace di cambiare le istituzioni è sepolto per sempre. Oggi l’ex premier, quando parla, sembra qualcosa di già visto e, quindi, di superato nel suo capitale d’innovazione e credibilità. Renzi può solo trasformarsi, vasta legge elettorale e parlamento, da leader accentratore e divisivo a segretario dialogante e tessitore di coalizioni. Questo dovrebbe accadere anche se, come suggeriscono alcuni, Renzi cacciasse la minoranza e tentasse un’operazione simil-Macron (ci torneremo presto e occhio alle analisi facili). L’ex premier dovrà comunque assomigliare sempre più a Giolitti e sempre meno a Craxi o al Berlusconi dei primi tempi. Date le premesse sopra tracciate una domanda è d’obbligo: quanto può resistere in questo scenario una personalità spesso arrogante e poco incline al compromesso come quella di Renzi? In fin dei conti, se guardiamo la storia, la Repubblica del non governo (per citare lo storico Piero Craveri) e la storia del potere in Italia (per dirla con il costituzionalista Maranini) mostrano come il sistema Paese mal tolleri il tipo di Renzi visto fino ad oggi. Ciò non significa che il fiorentino sia politicamente finito perché, questo spesso si dimentica quando si analizzano la politica e i suoi scenari, la sua fortuna dipenderà anche da alleati, avversari e situazione internazionale (come finisce in Francia e Germania? E in Grecia?).