Canti e poesie dell’Italia Unita: l’Inno di Mercantini per Garibaldi
2 Gennaio 2017
Ci sono incontri spesso casuali, fugaci, incontri apparentemente banali che, per uno strano gioco del destino, sono da subito destinati a rimanere patrimonio della memoria collettiva. È in quell’immane ruota dei racconti storiografici, quella in cui, troppe volte, si ama riassumere per rendere tutto più facile a chi ne usufruisce che, ogni tanto, si tralasciano eventi meritevoli di qualche riga in più.
Era la sera del 19 Dicembre 1858, una sera rimasta nella storia, anche se pochi ne parlano ancora. Garibaldi era a Genova, a casa del conte Gabriele Camozzi, lì seduto tra i suoi fedelissimi Bixio, Chiassi, i fratelli Bronzetti e lo stesso Camozzi, discuteva degli ultimi eventi e delle prospettive future. Si parlava del colloquio avvenuto tra lui e Cavour che gli aveva manifestato l’intenzione di provocare l’Austria, gli aveva prospettato la necessità di una spedizione da farsi in primavera e gli aveva chiesto di chiamare alle armi i giovani volontari. Vi sarebbero stati due centri per il reclutamento: uno a Cuneo e uno a Savigliano.
I discorsi cominciarono ad animarsi e l’entusiasmo sembrava a mala pena trattenersi. L’idea di riprendere le armi infiammava gli animi. Proprio mentre si discuteva entrò nella stanza Luigi Mercantini, autore della “Spigolatrice di Sapri”, e subito fu presentato al Generale che all’apice dell’entusiasmo e già preso completamente dalla situazione che si stava delineando ebbe una folgorazione guardando il Mercantini.
“Voi mi dovete scrivere un inno per i miei volontari: lo canteremo andando alla carica e lo ricanteremo tornando vincitori”, gli disse guardandolo dritto negli occhi.
Passarono pochi giorni e il 31 Dicembre, prima di mezzanotte a villa Camozzi c’era tantissima gente: patrioti, dame, ufficiali dell’esercito sardo. Tutti attendevano di poter brindare all’anno nuovo il 1859, un anno che, dalle notizie che erano circolate, sarebbe stato importante e decisivo. I discorsi erano incentrati solo su quello che sarebbe dovuto accadere, sul fatto, di cui ormai si parlava insistentemente, che si sarebbero di nuovo impugnate le armi e sulle opportunità che questi eventi avrebbero potuto delineare. Alla festa Garibaldi non c’era; ma quella serata stava per passare alla storia.
Ad un tratto Silvia, la figlia di Carlo Pisacane, divincolatasi dalle braccia della mamma, Enrichetta di Lorenzo, corse ad abbracciare le gambe di un uomo appena entrato nella sala: Luigi Mercantini. I presenti gli si affollarono intorno, era già circolata la notizia della richiesta fattagli da Garibaldi e, tutti, volevano sapere. Mercantini abbracciò la bimba poi, anticipando qualsiasi domanda, tirò fuori dalla tasca un foglio con il testo e uno con la musica. Il clima era quello della grande attesa.
“Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti! Le spade nel pugno, gli allori alle chiome, la fiamma e il nome d’Italia sul cor! Veniamo! Veniamo, su, o giovani schiere, su al vento per tutto le nostre bandiere! Su tutti col ferro, su tutti col foco, su tutti col foco d’Italia nel cor. Va fuora d’Italia, va fuora ch’è l’ora d’Italia va fuora, va fuora, o stranier”, cominciò a leggere. Aveva colpito nel segno, se ne accorse subito guardando i volti dei presenti. Quelle parole erano le stesse che ognuno di loro avrebbe voluto pronunziare. Erano “la riscossa” che loro attendevano, il pensiero che inconsciamente avevano già fatto mille volte, il “discorso” che non avrebbero più dimenticato. A quel punto Giuseppina, la moglie, accomodatasi al pianoforte cominciò a far risuonare nella stanza le prime note, Mercantini cominciò a cantare e subito intorno a lui si levarono le voci di tutti i presenti. Gli animi furono attraversati da un brivido. Spontaneamente, come se non vi fosse altro da fare, le dame, i patrioti, gli ufficiali, si presero per mano, si strinsero forte, quasi a voler rappresentare l’Italia unita e cominciarono a danzare nel salone. Mezzanotte era ormai scoccata, il 1859 stava muovendo i primi passi e fuori dalla villa si sentivano scoppi di mortaretti. Si accorsero, allora, che il nuovo hanno era arrivato in punta di piedi mentre loro gioivano intorno ad un pianoforte godendosi le note che avrebbero contraddistinto il futuro.
L’unico augurio che a quel punto si scambiarono fu: “Viva l’Italia!”.