A che punto è il Recovery Plan? Una panoramica
5 Febbraio 2021

Non c’è dubbio che il tema del recovery plan potesse essere gestito molto meglio di quanto non sia stato fatto. A partire da settembre, quando l’ormai ex governo Conte bis presentò la prima bozza, fino a metà gennaio, quando venne stilata la cosiddetta versione definitiva, si è assistito al susseguirsi di tre versioni ciascuna delle quali con radicali cambiamenti rispetto alla precedente.
Sono stati spostati miliardi con grande facilità da un progetto all’altro e questo fa ragionevolmente pensare che sotto quei miliardi ci fosse solamente una indicazione di massima sulla destinazione, perché altrimenti non si sarebbero potuti spostare fondi così facilmente passando da sussidi ad investimenti. Da parte del nostro governo si sarebbe dovuto e potuto seguire una strada più ordinata.
L’Unione Europea quando ha presentato il regolamento del recovery plan, che poi è stato leggermente aggiornato, aveva dato delle indicazioni precise su come esso avrebbe dovuto essere
sviluppato. Queste indicazioni sono state seguite da alcuni paesi. La Grecia ad esempio ha preso alla lettera le indicazioni della UE, le ha compilate facendosi aiutare da consulenti esterni ed ha presentato un recovery plan che è adeguato alle esigenze della Unione Europea. L’Italia ad oggi ha
un recovery plan nel quale un terzo delle risorse sono già state impegnate nella finanziaria (cioè circa 70 miliardi), invece sulla destinazione dei grant (cioè i sussidi a fondo perduto del valore di una settantina di miliardi) non si sa ancora assolutamente nulla e ci sono due distinte categorie di
progetti: quelli come il superbonus del 110%, il cashback e l’industria 4.0 che sono tutti già finanziati e descritti dettagliatamente (compresi gli investimenti fatti dalle ferrovie dello stato per l’alta velocità); mentre ci sono poi tantissimi progetti che sono assolutamente nel vago. Sono cioè
allocazioni a pioggia di risorse che non hanno nessuna finalizzazione e che comunque sfuggono al quadro di insieme che deve essere quello che l’Italia presenta all’Europa.
È vero che i fondi ci sono stati allocati dall’UE, o sarebbe meglio dire “ce li siamo presi”, ma i fondi hanno una condizionalità molto elevata perché devono rispecchiare tre criteri, cioè deve essere chiaramente indicato quale è lo stato di partenza, quali sono poi le “milestones” (ovvero le tappe intermedie) ed infine devono essere chiari in termini quantitativi gli obbiettivi finali. E quello che dice il documento dell’Unione Europea è che tutto questo deve essere fatto in modo molto “granulare”, che nello slang tecnico significa con molti dettagli. Se questa granularità mancasse e se quindi gli obiettivi non venissero raggiunti ci sarebbe il rischio che i fondi non verrebbero erogati. E quindi ci sarebbe il rischio per l’Italia di perdere sia prestiti che i contributi a fondo perduto (ovvero settanta miliardi) .
L’errore politico di Conte è stato quello di gestire il recovery plan negli ultimi 6 mesi come se fosse una cosa sua personale e dei suoi consiglieri; come conseguenza il prezzo politico pagato, grazie anche alle astuzie argomentative ed agli intrighi di palazzo di Renzi, sono state le conseguenti dimissioni.
In Draghi, ennesimo futuro presidente del consiglio non eletto dagli italiani, non si può che riporre una grande fiducia, nella consapevolezza che la sfida sarà ardua e che non si sta parlando solo di fondi europei ma del futuro dell’Europa stessa.