La destra dissidente avanza in tutta Europa, mentre l’Italia resta immobile

di Francesco Boco
15 Novembre 2016

Non sarebbe una perdita di tempo domandare ai molti allarmati per la Brexit cosa sia realmente cambiato dopo il referendum. La risposta onesta sarebbe: molto poco. È infatti del tutto evidente che si sia trattato di una mossa dettata da una serie di vantaggi economici ampiamente previsti dalle dirigenze d’Oltremanica. La Brexit ha però sollevato una questione molto chiara agli osservatori onesti: l’immigrazione incontrollata. Il grosso di coloro che ha votato per l’uscita del Regno Unito dall’Europa – a proposito, già Disraeli considerava l’Inghilterra “of Europe, not in Europe”, qualcosa vorrà pur dire – lo ha fatto come gesto di protesta contro le masse di immigrati che sembrano non conoscere freno. Si tratta evidentemente di uno dei paesi più multirazziali dell’Occidente e dove s’iniziano a intravedere i lati negativi dell’immigrazione selvaggia.

Quello che più dovrebbe interessare oggi gli europei continentali non sono tanto gli affari interni di un’isola che nella sua storia ha spesso e volentieri messo i bastoni fra le ruote agli altri Stati dell’Unione, quanto i risvolti politici che questo allontanamento simbolico sta portando.

Paesi che fino a qualche mese fa avevano un ruolo minore e il cui peso in sede europea veniva considerato trascurabile stanno gradualmente acquisendo maggior peso decisionale e, grazie a una strategia concertata, stanno agendo da gruppi di pressione sulle misure anti-sovraniste e anti-identitarie europee. Si tratta naturalmente di Slovacchia, Polonia e Ungheria, nazioni governate da partiti nazionalconservatori anche molto diversi tra loro ma che non sembrano disposti a cedere alle richieste di quote obbligatorie e ricatti economici. Il premier polacco Kaczinsky e quello ungherese Orban hanno parlato recentemente di una rivoluzione contro l’Europa. I propositi sembrerebbero andare nel senso di un risveglio dell’identità nazionale senza perdere di vista l’integrazione continentale, che è oggi più che mai fondamentale.

Orban è stato considerato per anni dalla stampa una sorta di paria nel consesso di paesi progressisti europei. Coll’andare del tempo però le sue misure a tutela dei confini hanno dimostrato che non soltanto c’è ancora spazio per la decisione politica, ma anche che l’influenza della UE si sfalda di fronte a dirigenze preparate e capaci di muoversi con oculatezza. L’Ungheria ha dunque dato il là a una politica alternativa in materia d’immigrazione, dimostrando coi fatti che non è sempre necessario arrendersi ai diktat di qualche funzionario mal consigliato.

Lo spostamento ad Est del peso politico europeo può insomma aprire prospettive per lo meno interessanti nel futuro del Vecchio Continente. I risultati di partiti quali l’AfD tedesco e l’FPO austriaco confermano quest’ipotesi, mostrando una tendenza alla riappropriazione dell’identità culturale e della sovranità nazionale. Le migliori élite europee hanno da tempo compreso che il rischio più grave non è di carattere economico e neppure energetico, ma che è in gioco, più radicalmente, l’identità stessa dei popoli europei, le loro radici culturali, il senso di appartenenza comunitario che giorno dopo giorno viene messo in discussione, svilito e oltraggiato.

L’aspetto salutare della Brexit è dunque questo, una presa di coscienza ad ampio raggio su quello che sarà il fulcro decisivo dei confronti politici dei prossimi anni. A questa scossa, si associa il “terremoto” Trump, che sul piano puramente mediatico, culturale e dell’immaginario collettivo è destinato a segnare in maniera indelebile i prossimi mesi. Tutto starà, da parte dei dissidenti, degli anti-conformisti e dei nuovi conservatori europei spingere per conquistare spazi che ora sono facilmente conquistabili e capitalizzare sul piano economico e politico un supporto radicato. Il futuro dell’Europa e dei popoli europei dipende infatti dalla capacità di rivitalizzare il senso di appartenenza, riscoprendo quei caratteri peculiari che uniscono nella differenza. In questo lento movimento verso un potenziale risveglio, l’Italia sembra in larga misura essere fuori strada.

In Parlamento non siedono partiti che dimostrino di avere il coraggio e la coerenza indispensabili per i tempi che verranno. Il caso della Lega Nord è emblematico di un modo di fare politica ondivago, ambiguo e fondamentalmente egoistico. Le ambizioni nazionali di un anno fa sembrano completamente svanite, per lasciare spazio a vecchi slogan autonomisti da sindacato del Nord. Chi intravedeva nel nuovo corso leghista un avvicinamento a partiti europei affini dovrà ben presto riconoscere l’inconsistenza di posizioni francamente anacronistiche. Forse a livello locale le cose potranno talvolta avere risvolti positivi, ma sul piano nazionale i risultati sono deludenti. Il recente endorsement pro-Trump ha del grottesco, dato che senza una linea nazionale chiara e un progetto politico strutturato e credibile ogni parola si riduce a semplice sfogo retorico. Troppo poco, specie se si considera quanto è andato sprecato nell’ultimo anno. E nei maggiori partiti non si scorgono leader capaci di compiere quel gesto di rottura necessario a costruire un progetto nazionale credibile a livello europeo. Al momento, è compito di sparute minoranze tentare una ricerca dei principi di un nuovo Rinascimento.