Lacrime di coccodrillo per la morte di Gerardo Marotta.

di Luigi Iannone
27 Gennaio 2017

Gerardo Marotta, fondatore dell’Istituto per gli studi filosofici di Napoli, è stato l’ultimo grande giacobino. Morto alla soglia dei 90anni per una grave crisi respiratoria che lo ha colpito nella notte del 24 gennaio dopo che, da Natale, era ricoverato in una clinica napoletana per tutt’altra serie di problemi.

Giacobino per formazione culturale, per intenti politici, gusti letterari tanto da dire no a Cossiga allorché la prima carica dello Stato voleva riaprire il portone del palazzo Serra sede dell’Istituto. Portone chiuso dal 20 giugno 1799 quando il rivoluzionario Gennaro Serra di Cassano fu trascinato via da lì per essere decapitato in piazza Mercato e in segno di lutto, suo padre, ne aveva decretato la chiusura fino a quando gli ideali dell’illuminismo napoletano non fossero stati attuati e vendicati tutti i martiri del 1799: <<Quella porta non fu riaperta con Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat. – fece sapere dall’Istituto-. Non la riaprirono i patrioti del 1821 e quelli del 1848. Non la riaprì Giuseppe Garibaldi. Non si riaprì all’alba di questa nuova repubblica italiana. Con tutto il rispetto per il presidente della repubblica, perché riaprirla ora per Cossiga?>>.

Dunque, giacobinismo distillato fino all’ultima goccia. Piccolo, ingobbito dagli anni, e sempre con il suo cappello di feltro, l’avvocato come lo amavano chiamare a Napoli, aveva ricevuto riconoscimenti internazionali come la Legione d’onore e nel 2015 era stato anche tra i papabili per diventare senatore a vita. Aveva creduto nel rinascimento napoletano decantato da Antonio Bassolino e ne era rimasto deluso. Aveva prestato fede alle qualità e alle prerogative di tanti progressisti partenopei e nazionali che si sono dimostrati incapaci alla realtà dei fatti, sopratutto lasciandolo solo con i sempre più gravi problemi economici dell’Istituto. Alla fine di questo suo percorso era scoraggiato e deluso dopo averle tentate tutte per tenere in vita la sua preziosa creatura. La situazione era nota e al collasso da tanto tempo da arrivare al punto che le istituzioni locali e nazionali non sono riuscite nemmeno a trovare una sistemazione logistica per salvare l’immenso patrimonio librario, oltre trecentomila volumi. Negli anni Marotta aveva già venduto beni e proprietà private per far fronte all’imminente catastrofe e non senza una punta di mal celata vanità ripeteva di aver debiti finanche col salumiere. E tutto per difendere dall’incuria e dall’oblio edizioni originali delle opere di Giordano Bruno, Giambattista Vico, Benedetto Croce e mille altre cose. Ma nessun politico se ne è fatto carico, anche quelli che si riempono quotidianamente la bocca di cultura.

Marotta non demordeva dall’intento principale, far in modo cioè che la grande tradizione che definiva <<dell’umanesimo meridionale>>, quella che appunto passava da Giordano Bruno, Telesio, Campanella, Genovesi, Filangieri e Pagano, potesse essere piattaforma culturale per una nuova classe dirigente. L’istituto da lui fondato nel 1975, su sollecitazione di Elena Croce, figlia del filosofo, e del presidente dell’Accademia dei Lincei, Enrico Cerulli era nato con questi intenti: <<Erano venuti a chiedermi di lasciare la mia professione -disse- per continuare il lavoro che avevo fatto dopo la liberazione, con il gruppo Gramsci e i circoli del cinema che avevo creato insieme a Renato Caccioppoli. Risposi che ero onorato della proposta e che mi sarei preso un anno di tempo per riflettere. Ma Elena Croce sbottò: bisogna far presto, non c’è tempo da perdere, l’Europa è in declino>>.

Impresa non da poco. Eppure uno come Derrida aveva confidato di non conoscere «al mondo un progetto analogo, e altrettanto esemplare, attuato con tanta dolce ostinazione, con un tal genio dell’ospitalità. In nessun altro posto, in nessun’altra istituzione, ho trovato maggiore apertura e maggiore tolleranza, una così vigile attenzione nel tener presente contemporaneamente la tradizione culturale e le occasioni dell’avvenire». E poi anche Gadamer che non ha mai fatto mancare la sua vicinanza così come Louis Althusser, Cornelius Castoriadis, Alain Caillé, Pierre Bourdieu, Jacques Le Goff. Un frenetismo culturale non pareggiabile da altri istituti, che si è per esempio concretizzato con migliaia di borse di studio erogate a giovani ricercatori, 15mila tra lezioni e convegni in tutto il mondo, scuole estive in piccoli paesi del Sud Italia e centinaia di altri progetti.

E il punto è proprio questo. Nonostante un radicalismo e una palese intransigenza su temi per lui ‘sensibili’ come l’illuminismo e la repubblica napoletana, e su cui non poche critiche potrebbero essere fatte, nel suo Istituto hanno potuto far lezioni e parlare in tanti. Per esempio, lo storico revisionista Ernst Nolte che vilipeso in giro per l’Europa, teneva invece ogni anno a Napoli seminari con studenti e docenti universitari. Un appuntamento seguito dai media e da studiosi di ogni ordine e grado. Oltre a lui, tanti altri  che poco avevano in comune con gli ideali dell’illuminismo e con i suoi epigoni moderni. Tutto ciò è stato possibile grazie a Gerardo Marotta il quale invece è stato pilatescamente abbandonato dai suoi stessi amici progressisti; gli stessi  che ora lo stanno santificando sui quotidiani e in Tv.