Conservatorismo transatlantico: il viaggio di Nazione Futura a Washington

di Enrico Ellero
1 Marzo 2024

Dal 21 al 25 febbraio una delegazione di Nazione Futura, guidata dal Presidente Francesco Giubilei, si è recata in visita a Washington DC e a Wilmington (Delaware) per una serie di incontri con alcuni tra i principali think tank conservatori americani e per partecipare al Cpac (Conservative Political Action Conference), la conferenza annuale dei conservatori, che da diversi anni richiama delegazioni da tutto il mondo.

La prima tappa è stata l’Intercollegiate Studies Institute (ISI), che ha sede nella campagna intorno a Wilmington, in un contesto bucolico e autenticamente conservatore. L’ISI è stato fondato nel 1953 ed ha avuto come primo presidente William J. Buckley, uno dei principali intellettuali conservatori americani, fondatore della National Review. Questo think tank si occupa soprattutto di promozione del pensiero conservatore nei campus universitari, sostenendo una rete di associazioni studentesche attive all’interno delle università americane. Un compito particolarmente arduo nell’epoca del politicamente corretto e dell’ideologia woke, ormai egemoni all’interno dell’accademia, ma proprio per questo mai così necessario.

La risposta conservatrice all’ultraprogressismo che avanza a grandi passi nel mondo anglosassone, ma sta conquistando sempre più spazio anche in Europa continentale e in Italia, non può essere soltanto una risposta politica, ma dev’essere innanzitutto una risposta culturale. E proprio le università, nelle quali si formano le nuove generazioni, devono tornare ad essere dei luoghi di confronto, dibattito e free speech, non soltanto dei centri di indottrinamento woke. Ecco perché sostenere le associazioni studentesche di stampo conservatore, finanziare i loro giornali e le loro pubblicazioni e invitare speaker conservatori a parlare nei campus, è l’unico modo per proporre un’alternativa a tutti quegli studenti che non si sentono rappresentati da un certo pensiero dominante e intollerante. Anche in Italia sarebbe molto utile iniziare a ragionare di questi temi, prima che la tempesta woke travolga anche le nostre istituzioni accademiche e culturali.

Ci siamo spostati poi nel centro di Washington per incontrare una delegazione composta da esponenti dell’Heritage Foundation, probabilmente il più importante think tank conservatore negli Usa, e dell’America First Policy Institute, con l’aggiunta all’ex Segretario di Stato per gli Affari dei Veterani Robert Wilkie. Qui la discussione si è concentrata di più sulle questioni militari, economiche e strategiche. Per gli Stati Uniti, a prescindere dal colore dell’Amministrazione, la priorità in politica estera è la Cina, considerata il rivale più insidioso e più forte. La Russia resta un competitor importante, e il conflitto in Ucraina lo dimostra, ma in secondo piano rispetto alla Cina. L’opinione più diffusa è che un’eventuale Amministrazione Trump non cambierebbe in maniera significativa la politica degli Stati Uniti nei confronti della Russia, nonostante le numerose accuse di “putinismo” e di collusione con i russi che vengono spesso mosse a una parte del Partito Repubblicano e a Trump stesso. Inoltre, durante la Presidenza Trump, al netto della retorica, l’impegno militare americano in Europa è aumentato, perciò gli spauracchi sulla “fine della Nato” in caso di vittoria repubblicana si scontrano con la realtà dei fatti. Le frasi dell’ex Presidente servono piuttosto a spronare alcuni paesi europei a investire maggiori risorse nella difesa, arrivando al target del 2% del Pil, e a non fare affidamento esclusivamente sugli Stati Uniti per la propria sicurezza. In altre parole, maggior burden sharing.

I nostri interlocutori hanno dimostrato grande interesse e grande simpatia per la Presidente Meloni e per il governo italiano, che viene visto come un fedele alleato e come un faro di speranza per il conservatorismo in Europa. Il giorno successivo siamo stati all’ATR (Americans for Tax Reform), dove abbiamo conosciuto Grover Norquist, presidente e fondatore del think tank e storico attivista anti-tasse molto apprezzato dalle amministrazioni repubblicane. Per gli appassionati di cinema, Norquist e l’ATR sono anche citati nel film “Vice”, sulla vita del Vicepresidente Dick Cheney, in cui viene menzionato il “Wednesday Meeting”, l’incontro del mercoledì, un appuntamento fisso organizzato dal think tank nella propria sede che da molti anni è un punto d’incontro per politici, analisti e lobbisti conservatori. Lo scopo dell’ATR potrebbe essere riassunto dal titolo del libro pubblicato da Norquist nel 2008: Leave us alone! Lasciaci soli (Stato), non immischiarti nelle nostre faccende e nelle nostre scelte, non entrare nelle nostre tasche. Da sempre l’ATR si batte per una riduzione della pressione fiscale sul contribuente americano e fa firmare ai candidati ad una carica elettiva un giuramento, il Taxpayer Protection Pledge, che li impegna ad opporsi e votare contro ad ogni aumento delle tasse. Questo giuramento, che viene firmato da quasi tutti i candidati repubblicani al Congresso e anche da qualche democratico, è sicuramente un modo per responsabilizzare gli eletti a livello federale e statale e per valutare la coerenza tra promesse e fatti in materia fiscale. Un modello che si potrebbe replicare anche in Italia per favorire l’accountability di una classe politica spesso prodiga di promesse, ma poco incline a rispettarle.

Veniamo infine al CPAC, la meta finale del nostro viaggio. Il CPAC è la Conservative Political Action Conference, la conferenza dei conservatori americani che si tiene una volta all’anno e richiama ormai politici, giornalisti e simpatizzanti conservatori da tutto il mondo. Storicamente il CPAC, inaugurato da Ronald Reagan nel 1974 qualche anno prima di diventare presidente, era un luogo di confronto tra le diverse anime del partito e del mondo conservatore, dai repubblicani classici ai libertari, dalla destra religiosa ai neocon. L’impressione è che oggi si tratti invece di un momento celebrativo, in cui tutto ruota intorno alla figura di Trump. Certamente c’è molto movimento, grande fermento, una presenza numerosa di canali televisivi, radio, enti e fondazioni della galassia conservatrice, ma non è il Partito Repubblicano il protagonista dell’evento, bensì Donald J. Trump. Trump è popolarissimo tra la base elettorale repubblicana, perciò ora come ora non è pensabile una vittoria dei conservatori senza Trump. Oltre a Trump e a diversi esponenti del trumpismo di lotta e di governo (da Kari Lake a Matt Gaetz, da Peter Navarro a Steve Bannon), è stato dato molto spazio agli ospiti internazionali, primo fra tutti il presidente argentino Javier Milei. Il discorso di Milei è sembrato più una lezione di economia politica che un comizio, ma forse la particolarità del presidente argentino è proprio quella di saper alternare momenti di grande riflessione astratta, con citazioni a non finire di Hayek, Mises, Rothbard e Pareto, a momenti in cui risuona potente il suo “Viva la libertad carajo!”. Milei è indubbiamente una ventata di aria fresca per il mondo conservatore e libertario, non soltanto per lo stile comunicativo che rompe gli schemi, ma anche per la capacità di invertire una certa narrazione statalista, protezionista, anti-mercato e anti-Occidente che negli ultimi anni non ha caratterizzato solo la sinistra, ma anche una parte consistente dei cosiddetti sovranisti.

Quali conclusioni trarre da questi incontri e dal CPAC? Innanzitutto che il movimento conservatore, per quanto diverso dall’epoca reaganiana che in molti vedono come una sorta di età dell’oro, è vivo e vegeto. La domanda di politica, di idee e di leader conservatori cresce in tutto il mondo, ma bisogna rispondere con un’offerta adeguata. Negli Stati Uniti le fondazioni e i think tank conservatori sono numerosissimi, ricevono grandi donazioni da donor privati, hanno un ruolo di primo piano nel policymaking e godono di grande considerazione. In Italia la situazione è molto diversa: ci sono pochi think tank in termini assoluti, e pochissimi di destra, con budget ridotti e con una scarsa capacità di influenza sul decisore pubblico, che nella migliore delle ipotesi li considera superflui, nella peggiore li vede come dei rivali che vogliono in qualche modo sostituirsi ai partiti. In realtà la politica e le fondazioni politico-culturali hanno ruoli diversi: la politica prende le decisioni e si muove negli spazi larghi, le fondazioni servono a consigliare, ispirare, supportare con dati, contenuti e idee la politica e si muovono negli spazi stretti. Serve maggiore interazione tra questi due mondi se si vuole costruire una vera politica conservatrice fondata sui principi. E servono delle strutture e dei momenti di aggregazione adeguati. Per questo si dovrebbe valutare l’idea di portare la formula del CPAC anche in Italia, ovviamente adattandola al contesto italiano. Il momento dei conservatori è adesso, non sprechiamolo.