Dante e l’amore che conduce a Dio

di Redazione
18 Luglio 2021

di Luca Antonio Coppo

Nel terzo trattato del Convivio Dante commenta la canzone Amor che nella mente mi ragiona in cui annuncia e conferma la vittoria, attraverso un elogio, della donna gentile e misericordiosa, regina di tutto, figlia di Dio, cioè la filosofia sul ricordo dell’amata Beatrice morta in tenera età. Nelle prime pagine del commento della canzone, che segue l’ordine dei versi, si legge un’importante dissertazione sull’amore che ci aiuta a comprendere il senso letterale che l’autore dà a questo termine.

Per il Sommo Poeta l’amore è una forza (vis) dinamica che unisce spiritualmente l’anima con la cosa amata. Tuttavia, non si legge unione ma unimento, come se l’autore volesse indicare tutto il processo del movimento e non solo il risultato.

Una forza che può essere più o meno impedita, più o meno libera, ma naturale (Convivio, III, II, 3) e, tale naturalezza, che è fondamentale per il compito complessivo del Convivio, viene dimostrata facendo riferimento, anche se con lenti aristoteliche, al libro di Cagioni: un’opera neoplatonica che riprende trentadue proposizioni dell’Elementatio Theologica di Proclo, scritta in arabo nel IX secolo dal circolo di Baghdad di al-Kindi e tradotta in latino (Liber de causis) nel XII secolo da Gerardo da Cremona a Toledo.

Dante comincia la sua spiegazione scrivendo che «ciascuna forma sustanziale procede dalla sua prima cagione, la quale è Iddio» (III, II, 4).

Si nota immediatamente il platonismo derivante dal Liber de causis per cui il molteplice, dato dalle differenti forme sostanziali, fluisce dall’Uno, dalla causa prima, cioè Dio; ma il richiamo alla forma sostanziale ricorda il maestro di color che sanno (Inf, IV, 131), Aristotele, la quale indica quella forma che consente ad una determinata sostanza di essere tale, di avere una sua propria e particolare natura. Ora, la molteplicità delle forme sostanziali non sono un effetto diretto della causa prima poiché essa è assolutamente semplice, come diceva Plotino.

Dio, cioè la causa prima, genera il primo effetto, l’essere, grazie al quale le cause seconde, create da Dio – o dall’Uno, il che è lo stesso – possono esercitare la loro operazione specifica sulla realtà. Inoltre, l’effetto porta con sé qualcosa della causa, cioè la natura di ciò che è causato da una certa realtà non può che assomigliare alla natura di questa realtà, e la somiglianza che vige fra Dio e i suoi effetti è comprensibile solamente all’interno di un rapporto di partecipazione: «per lo modo quasi che la natura del sole è partecipata nell’altre stelle» (Convivio, III, II, 5).

Le creature partecipano dell’essere e della bontà della natura divina, grazie alle cause seconde, ma senza che l’essere o la bontà vengano meno in Dio; allo stesso modo, la luce delle stelle partecipa della luce del sole la quale resta comunque della stessa intensità. Tuttavia, nel Liber de causis l’essere è secondario a Dio in quanto suo effetto, mentre in Dante Dio è l’essere stesso, come sosteneva Tommaso d’Aquino.

Solo in Dio essere ed essenza coincidono, ma in tutte le altre creature l’essenza è distinta dall’esistenza, ovvero un cane o un uomo non si danno di per sé l’esistenza in quanto la loro esistenza viene da altro, non da loro stessi. Le creature esistono per altro e da altro, Dio esiste per se e da sé.

Dante procede, e afferma che le diverse forme sostanziali sono disposte in ordine gerarchico a seconda della loro vicinanza o lontananza metafisica: tanto più vicini a Dio, tanto più partecipi della natura divina. E fra tutti gli enti del mondo sublunare l’uomo è il più divino poiché la sua forma sostanziale, cioè l’anima (razionale), è talmente nobile e somigliante alla natura di Dio da renderlo simile agli angeli. E però che naturalissimo è in Dio volere essere […] l’anima umana essere vuole naturalmente con tutto desiderio (III, II, 7). La natura di Dio è quella di voler essere, ma l’essere è Dio e dunque Dio vuole se stesso. Si osserva ancora la differenza rispetto al Liber de causis e la vicinanza al pensiero di Tommaso d’Aquino e alla teoria del primo motore immobile di Aristotele, atto puro che pensa se stesso.

Come Dio l’anima, per la sua forte vicinanza e partecipazione della natura divina, vuole naturalmente essere, ma la causa del suo essere è Dio e così, prima di tutto, l’anima vuole naturalmente Dio e unirsi a Lui per fortificarsi; volere Dio significa volere il Suo essere e la Sua bontà i quali si manifestano nelle perfezioni della ragione e, dunque, l’anima umana tenderà ad unirsi naturalmente ad esse: «E però che nelle bontadi della natura [e] della ragione si mostra la divina, vène che naturalmente l’anima umana con quelle per via spirituale sé unisce […] E questo unire è quello che noi dicemo amore […] cioè l’unimento della mia anima con questa gentil donna, nella quale la divina luce assai mi mostrava» (III, II, 8-9).

L’Amor che nella mente mi ragiona è allora l’amore, quale unimento spirituale e naturale, per la conoscenza. La tendenza incessante a unire la propria anima alla gentil donna, ossia la filosofia, insieme alla quale calcare la terra e volgersi verso la natura di Dio perché «[…] ‘l suo aspetto giova/ a consentir ciò che par maraviglia/ onde la nostra fede è aiutata:/ però fu tal da etterno ordinata […] costei pensò chi mosse l’universo» (III, Amor che nella mente mi ragiona, v. 51-54 e 72). Dunque, la filosofia per Dante è ciò che trattiene la fede, un amore che conduce a Dio.